Dott.ssa Emanuela Lopez, Psicologa dello sviluppo e dell’educazione – Psicoterapeuta Referente area Promozione del Benessere APS Con_tatto
Intervento proposto in occasione del Laboratorio culturale contro il pregiudizio e la violenza 25 novembre Giornata Internazionale contro la violenza di genere “Donne… oltre gli oceani del tempo” organizzata dall’Università Civica “A. Sacchi” in collaborazione con il Comune di Nettuno Area Cultura e Servizi Sociali
Buonasera,
grazie per questo invito che ho accolto con grande piacere, per il significato culturale di promozione di azioni volte al benessere. Da anni, con l’APS Con_tatto che qui rappresento, mi occupo di interventi di prevenzione e di azioni di empowerment e sono stata per questo particolarmente entusiasta della proposta di occuparmi oggi di maternità per invitarvi a riflettere su cosa implica oggi per una donna vivere la gravidanza e il divenire madre. Il mio intervento si incentrerà dunque su come il contesto culturale e socioeconomico influenzi l’essere mamma. Sono convinta che questo argomento sia importante nell’ottica della salute, non solo psicologica, della donna, e di benessere della popolazione. Le riflessioni che mi accingo a fare ritengo influenzino, infatti, anche le modalità relazionali familiari, con i figli in primis e quindi la possibilità della formazione di adeguati sistemi di attaccamento madre – bambino. Credo che aprire una riflessione che metta insieme questi temi con quello della violenza sia un momento di crescita, perché davvero non è violenza solo l’aggressività verbale e comportamentale intrafamiliare e/o di violenza di genere. Una donna che oggi si avventura verso la maternità si scontra secondo me con varie difficoltà: ne vedremo alcune insieme, ma mi piacerebbe ne nascesse una riflessione allargata e condivisa, anche al di fuori di questo laboratorio e magari a livello istituzionale.
La donna che si accinge a diventare madre rischia innanzitutto di perdere il lavoro o si troverà ad affrontare varie difficoltà a livello professionale. Per quanto riguarda il contesto lavorativo sappiamo che la donna ha diritto a 5 mesi di maternità da gestire tra gli ultimi mesi di gravidanza e i primi mesi dalla nascita del bambino. Dopodiché se è un dipendente ha diritto al rientro graduale al lavoro rispettando il riconosciuto diritto del bambino all’allattamento, mentre se è una libera professionista non ha ulteriori agevolazioni. Per non parlare di tutte quelle posizioni lavorative atipiche quali per esempio i contratti a progetto, rispetto ai quali le tutele sono spesso disattese con un ricatto più o meno esplicito. Al contempo la non flessibilità dei contesti e degli orari lavorativi rappresentano delle difficoltà che forzano il naturale processo simbiotico e quindi lo sviluppo adeguato dei sistemi di attaccamento madre – bambino, ma anche la ripresa graduale dalla rivoluzione ormonale e non solo che il parto e la maternità generano. Pur non soffermandomi su questo ritengo importante sottolineare come a partire da un’idea di uguaglianza, di parità si giunga alla negazione della peculiarità della condizione femminile e quindi a negare l’importanza di tempi congrui di ripresa dal lavoro dopo il parto o della necessità di una differente prospettiva o organizzazione lavorativa. Si arriva così a mettere le donne nella condizione di scegliere tra carriera e maternità/famiglia o a dover fare salti acrobatici per tenersi sempre al passo con i ritmi lavorativi (parlo volutamente di ritmi, non di obiettivi, produttività o altro) senza penalizzare i figli. Ne resta danneggiata la società: quando i sistemi di attaccamento non possono svilupparsi e consolidarsi serenamente, si è più vulnerabili per difficoltà relazionali e alcune patologie psichiatriche. Sono poche le aziende, vi cito Unilever tra tutte, che riconoscono nella maternità un valore, riconoscendo che la donna che diventa madre sviluppa capacità gestionali, organizzative e di vision che sono pari se non superiori ad analoghe capacità sviluppate con corsi di formazione lavorativa. Se si iniziasse a guardare a questo valore aggiunto potremmo realmente cominciare a dare spazio alla maternità. Se si pensasse in questi termini forse sarebbe anche più spontaneo per le aziende mettere le donne nelle condizioni di tornare serenamente al lavoro: con orari flessibili, centrandosi su obiettivi lavorativi e non orari, con servizi per la prima infanzia, non unico il nido aziendale. Le mamme lavorano di più e meglio se i loro bimbi sono vicini e al sicuro.
Ad ogni modo, come dicevo, non intendo centrarmi su questo. Parlare di stereotipi e pregiudizi nell’area della maternità mi fa pensare ad altri due temi fondamentali.
Il primo? Quello della violenza ostetrica. Di cosa questo significhi nei casi più eclatanti vi dirò tra poco, intanto parto dal parlare della medicalizzazione della gravidanza e del parto, di come una fase fisiologica della vita degli essere umani sia stata trasformata in una condizione di patologia. Non nego l’importanza dell’intervento medico, parlo di come quello che dovrebbe essere ed è un’eccezione, condizioni oggi tutto ciò che è fisiologico. È chiaro per me, e lo sottolineo per tutti, che in alcuni casi è fondamentale la medicalizzazione: le molteplici analisi ematochimiche, le ecografie, i cesarei, e questo segno di progresso, che con molti altri successi medici e farmacologici hanno permesso di diminuire le percentuali di aborti, di danni neonatali, morti premature, etc. Tuttavia anche le linee guide per la gravidanza fisiologica indicano nell’ostetrica il professionista che segue la donna in gravidanza dall’inizio alla fine, parto compreso! Eppure sono pochissime le donne che si affidano ad un’ostetrica. Gli esami clinici a cui la maggior parte delle donne si sottopongono sono a volte inutili in condizioni fisiologiche, ma a volte il medico li richiede in un’ottica di propria tutela, per difendersi, insomma, se poi qualcosa dovesse andare male. Le donne in questo subiscono, subiscono qualcosa che non è per loro, per il loro bene. Il parto… quante donne scelgono il proprio parto? Quante lo subiscono? La violenza ostetrica è anche questo. Un parto supino quando non ce n’è la necessità, l’episiotomia di routine, la manovra di Kristeller e quanto altro? Sono ancora troppe le donne che non sanno di poter scegliere, che non ritendono di essere le attrici principali e uniche del proprio parto e arrivano al travaglio non sapendo che cosa potranno fare. Recentemente una mamma a poche settimane dal parto mi ha detto che la cosa che aveva capito dal Corso di Accompagnamento alla Nascita era che avrebbe provato dolore e che doveva tacere. Ecco! Anche no! Negli scorsi anni una campagna di sensibilizzazione è proprio partita da questo: “Basta tacere, le madri hanno voce”. Il dolore è il tuo, tuo il corpo, tua la creatura che verrà alla luce e da te si cambia. Ancora oggi comunque pregiudizi sul dolore del parto, sulla posizione per partorire e altre simili affermazioni restano convinzione radicata. Fino a quando le donne non saranno consapevoli di tutto ciò ostetriche poco umane (e poco professionali direi!), ginecologi interessati ai numeri più che al benessere della madre e del bambino non hanno il diritto di fare, ci saranno donne che sentiranno di aver subito una violenza nel loro parto. E i padri hanno il loro ruolo nel poter dare forza e sostenere le loro donne e i loro figli.
Una seconda categoria di stereotipi e pregiudizi impera nella fase della gravidanza e della maternità. Tutti ne sapranno sempre più di noi, in qualunque momento tutti sapranno cosa è meglio per noi, per il nostro bimbo. Tante le convinzioni che vengono espresse come consigli non richiesti, tante le affermazioni che guardano ad un mondo ideale, o in cui l’esperienza personale è assunta a verità assoluta. Sei madre solo se fai un parto naturale, devi allattare, non devi allattare, deve dormire da solo, non prenderlo in braccio, il biberon è meglio, poi lo svezzamento, etc. da quali dati scientifici tutto ciò? Purtroppo in questa generazione siamo molto il frutto di un femminismo in cui bisognava uscire dalla sottomissione all’uomo e per riflesso alla famiglia. Si è passati all’estremo opposto, altrettanto rigido e bloccante. Il figlio che come processo naturale è dipendente dalla madre per lungo tempo negli ultimi decenni è dovuto essere rese autonomo il più presto possibile e quindi andava bene qualsiasi cosa che andasse in questa direzione. Al centro la donna, non la diade madre – bambino, non il bambino. È ancora forte questo retaggio: e allora ci si scandalizza se si allatta fuori dalle mura domestiche, se si allatta per più di 4 – 5 mesi, se si porta in fascia il proprio bimbo, se i figli piccoli dormono con i genitori… ne potrei citare ancora molti e voi potreste di certo aiutarmi. La separazione così precoce, da un punto di vista fisiologico e psicologico, è essa stessa una violenza: perché qualcosa di innaturale, che non promuove benessere. Qualcuno potrebbe obiettare che si stanno recuperando molti gesti naturali, che si stanno promuovendo pratiche maggiormente centrate sul benessere della mamma e del bambino. Vero! Per fortuna direi!! E anche con tanto sacrificio, aggiungo!! Al contempo permettetemi un ma: oggi chi promuove queste pratiche rischia talvolta di farlo con altrettanta violenza, proponendole come assoluti a cui aderire e portando con sé la conseguenza che chi non lo fa non è una brava mamma, va criticata, viene svalutata. E questo a prescindere dai motivi per cui lo fa. Ancora una volta si rischia di mettere le proprie convinzioni su un trono, assolutizzarle e farle diventare dei (pre)giudizi, un metro attraverso cui giudicare l’altro.
Fintanto che la donna non sarà al centro, con i bisogni e i valori di cui è portatrice, e non sarà al centro un obiettivo di benessere personale e della relazione con i figli, quindi anche il benessere dei figli, saremo sempre a rischio di violenza, di sopruso, di vittimizzazione. Permettetemi in questo una riflessione che vuole essere il punto di avvio per costruire alternative. Io credo che la chiave sia la consapevolezza, un sapere che non è indottrinamento, bensì presa di coscienza. Parlavo all’inizio di empowerment: intendevo proprio questo, processi che rendano la donna, gli esseri umani in generale, più coscienti di quello che possono e vogliono e capaci di trovare le alternative per esprimere se stessi e realizzarsi. Una donna consapevole delle sue motivazioni e delle sue risorse oltreché dei suoi limiti è una donna che può portare avanti una famiglia e quindi una società basata sull’ascolto di sé e dell’altro, sul rispetto. Un rispetto di sé che genera anche la possibilità di tutelarsi, di non accettare la violenza, l’imposizione dell’altro, che implica non sottomettersi e non tacere, per sé e per gli. Non mi vergogno di allattare mio figlio di 27 mesi, ovunque voglia, perché so che questo ha un senso per me e per lui, perché questo è stato finora un bene per lui e per la sua possibilità di fidarsi e affidarsi. Se sono forte di questo convincimento mio personale (non perché questo mi definisca in qualche modo o perché attraverso questo gesto vado bene per un gruppo di persone) potrà rispondere con assertività alle critiche, potrò non sentirmi attaccata o sminuita da chi la pensa diversamente da me e non mi servirà denigrare il pensiero altrui solo perché diverso. È un esempio, un esempio di come la consapevolezza respinge l’odio senza alimentarlo, un esempio di come posso scegliere per me e non trasformarmi in vittima che subisce l’altro o che ha bisogno di salvatori. Credo che questo si ottenga stando dalla parte della donna con la donna, accompagnandola, come dicevamo anni fa e continuiamo a sostenere nella nostra associazione, “accanto a te come vuoi tu”!
Vi ringrazio per l’attenzione e per questa opportunità e spero che vogliate raccogliere questa breve comunicazione per farla diventare spunto di confronto oggi o in altre sedi, per poter costruire percorsi di empowerment.