“Niente sarà mai più uguale, questo non significa che non sarà.”
“Ho un cancro. O lui ha me?” Uno dei dilemmi di chi si ammala nasce proprio da qui, perché questa patologia non viene da fuori: non ci si infetta né ci si contagia… Piuttosto parte dal nostro corpo che inizia a fare da sé. E questo che effetto fa? Poi c’è che la malattia, a prescindere da come inizi, ad un certo punto sembra prendersi tutto. Il tempo per esempio, che comincia a girare intorno al da farsi (per arrivare alla diagnosi, per i trattamenti). Anche quando non c’è da fare, come in fase di remissione, si fatica a riprendersi il proprio tempo, che sembra essere sospeso… sospeso fino al prossimo controllo o, quando il trauma ha paralizzato, in attesa di qualche sintomo, anche se magari non ci sarà.
È vero che non controlliamo la malattia e che, da malati, c’è poco da dire anche sui trattamenti: si diventa pazienti, come se questo implicasse meno attori, meno persone. Tuttavia il cancro, come ogni malattia, non è solo “disease”, non è solo la storia biologica, l’organo da affidare ai sanitari. La malattia è anche “illness”, la storia vissuta e quella è tutta del paziente e della sua famiglia.
Il cancro si inserisce nella storia personale: quando, dove, come… perché non è uguale se sto per avere un figlio, se sto tornando dalle vacanze o iniziando una nuova sfida lavorativa. “Perché a me?” È una delle domande centrali intorno alla quale talvolta ci si arrovella, incastrandosi. Non c’è una risposta da manuale, c’è solo la risposta che ognuno può trovare e ancor più c’è da cercare il filo affinché la propria vita non perda il suo senso né venga sospesa. La malattia modifica la persona, che però resta, o dovrebbe restare, centrale. Si parla di umanizzazione… perché oggi serve aiutare la medicina a riappropriarsi della totalità dell’essere umano. Una direzione, in Italia ancora troppo poco presente, è quella della medicina narrativa: ad ogni persona dovrebbe essere offerta la possibilità di raccontare la propria storia, anche per preservare il senso di continuità. La diagnosi come tutto il resto segnano una deviazione dalla strada immaginata, ma poi posso continuare a camminare, soprattutto se mi sarò dato il permesso di fermarmi a vedere dove mi ha catapultato, come sto e come voglio riappropriarmi di me. Niente sarà mai più uguale, ma questo non significa che non sarà. Che fine fa il futuro? Ci si continua a chiedere se si possono fare progetti o no… A volte anche in fase di remissione, quando il cancro non è più visibile e magari è stato debellato. Come ci si sente allora? Nulla è più come prima, soprattutto se si è ancora lì, tramortiti da quella ferita alla propria idea di inviolabilità.
Quando il racconto si interrompe o quando qualcosa diventa indicibile allora c’è bisogno di costruire un ponte, di aiutare a trovare le proprie parole, quelle che accompagnano le lacrime, i sorrisi, i pensieri, i desideri, le aspettative della persona malata, ma anche di tutta la famiglia, nella consapevolezza che ogni malattia non è solo affare personale, ma è sempre anche una questione di famiglia.
Si può curare un organo e quindi un corpo, ma se quel corpo ospiterà un’anima ferita non si potrà dire di aver aiutato una persona.
Autore:
Dott.ssa Emanuela Lopez
Pubblicato da:
EMME: il magazine delle mamme e delle donne
Febbraio 2015 Numero 09 (pag 22)