L’esperienza della malattia. Come dirlo ai figli?

E’ difficile affrontare il nascere di una patologia. Figuriamoci far vivere ai nostri figli questo dolore. E’ giusto renderli partecipi? Come comunicargli questa notizia?

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Mi capita che un adulto che si ammala di cancro prima o poi mi dica: “Dottoressa, che faccio coi miei figli? Glielo dico?”. A questa, come a molte domande veramente, spesso rispondo con altre domande: non è un modo per evadere la risposta, è che, primo, non credo esista una risposta valida e giusta per tutti a prescindere e, secondo, sono certa che spostare il punto di osservazione aiuti l’altro a trovare la risposta migliore per sé. Per questo preferisco chiedere, oltre a quanti anni hanno i figli, come immagina che staranno durante il ricovero chirurgico o il day hospital per la chemioterapia, la radioterapia o altro… cosa potranno domandarsi, con chi staranno. Sapere l’età ha il duplice obiettivo di aiutare i genitori a riflettere sulle persone, i propri figli appunto, che hanno di fronte e di poter spiegare che i bambini hanno delle idee proprie sulle malattie, la morte, il dolore, spesso (tanto più quanto più sono piccoli) condite di una magia particolare o quantomeno di una logica molto diversa da quella adulta. In generale per esempio per i bambini di 2-6 anni la malattia è dovuta ad un fenomeno naturale o ad oggetti vicini. Durante l’età della scuola primaria, i bambini riconoscono una causa esterna, pericolosa o comunque ‘cattiva’, che può contagiarli attraverso il contatto o per ‘introiezione’. Durante la fase operatoria formale, invece, i ragazzi sono in grado di riconoscere la catena di causa-effetto che può determinare una malattia.  D’altra parte i bambini sotto i 2 anni non sanno cosa sia la morte, ma rispondono in modo emotivamente intenso alle separazioni e agli stati emotivi negativi dei genitori, mentre i bambini in età prescolare credono che la morte sia uno stato temporaneo e reversibile e possono pensare che sia una punizione o l’adempimento di un desiderio. In generale dunque, come è illusorio il tentativo di escludere i bambini dalla partecipazione alla malattia, propria o altrui, così lo è negare la realtà della morte, ancor più per un bambino che la sperimenta attorno a sé.

È certamente vero che quel genitore che sta chiedendo come comportarsi è lo stesso che sta affrontando uno shock emotivo per una malattia sua o del partner e forse vuole cercare di controllare e proteggere una parte del suo mondo da tutto questo. Allo stesso tempo nel far questo corre il rischio di non cogliere cosa accade al figlio: quel bambino o ragazzo vivrà per un periodo, anche se   volte anche molto breve, senza la sua famiglia al completo e in un clima rivoluzionato, anche solo emotivamente; vedrà i cambiamenti dovuti all’intervento o alle terapie; sentirà il dolore e l’umore di tutto il sistema. Cosa può accadere se non gli si dà alcuna informazione? Lasciato in questa situazione al libero sfogo della sua fantasia cosa potrà immaginare? Come potrà sentirsi in una quotidianità alterata? Guardare da questa prospettiva spesso aiuta a cogliere l’importanza di contenere, di sostenere e a dare una sostanza diversa al desiderio di proteggere.

L’ottica capovolta in cui si mette al centro l’esperienza emotiva rende le informazioni concrete un accessorio funzionale a non abbandonare i propri figli alle loro emozioni. Non si tratta tanto di cosa e quanto dire, ma di non tacere, non negare e non negarsi, e piuttosto accompagnare. Per far questo è imprescindibile che il genitore malato e il suo partner possano permettersi di sentire le loro emozioni, il loro senso di vulnerabilità anche rispetto al loro essere genitori e possano comprendere come si sentono a condividere questo con i figli. Mantenere una comunicazione aperta, ancora una volta, rende pensabile e quindi dicibile e affrontabile l’esperienza della malattia.

Autore:

Dott.ssa Emanuela Lopez (psicologa, psicoterapeuta, analista transazionale)

Pubblicato da:

EMME: il magazine delle mamme e delle donne

Marzo 2015 Numero 10 (pag 18)

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